lunedì 2 marzo 2015

Why don't you get a job?/3

Signori, il momento è solenne. Rullo di tamburi... ho preso un bonus. Giovedì mattina mi sono ritrovata per le mani una bella busta bianca e dentro questa bella busta bianca c'era una bella lettera firmata dal mio capo, con i complimenti per il buon lavoro svolto lo scorso anno e, soprattutto, l'ammontare in sterline di tale riconoscimento. E ancora una volta non riesco a non fare confronti con la situazione lavorativa nella nostra repubblica democratica fondata (una volta) sul lavoro.


Mi rendo conto che il paragone tra il mio posto di lavoro attuale e quello che avevo a Milano sia, in qualche modo, ingiusto. Voglio dire, a Milano lavoravo per una piccola casa editrice che contava, tra dipendenti e collaboratori fissi, una trentina di persone al massimo, mentre ora lavoro per una divisione di una enorme multinazionale i cui dipendenti occupano ben due edifici in due diverse città qui nel sud dell'Inghilterra. Non so neppure quanti siamo in totale. Per dire, settimana scorsa ho partecipato a un meeting che ha riunito i diversi collaboratori e dipendenti dei soli settori marketing e business development, ed eravamo 180 persone. Aggiungendo gli altri reparti, credo che al migliaio di impiegati ci si arrivi facilmente.

Quindi, no, il confronto sul bonus, in sé, sul valore monetario del bonus quanto meno, non è giusto, me ne rendo conto. E soprattutto non è che nel mio vecchio lavoro non abbia mai ricevuto gratifiche di fine anno. Finché la crisi economica non ha iniziato a mordere ancor più di quanto non facesse già la crisi cronica dell'editoria italiana, la tradizione preferita dell'omone con la barba, il nostro editore, era quella di premiare i dipendenti con regali di un certo valore durante la cena di Natale. Certo, la pratica della consegna di queste gratifiche non era propriamente ortodossa. In pratica, a fine cena si tirava fuori la tombola, ognuno riceveva una cartella e l'uomo con la barba iniziava a estrarre i numeri. Negli anni i miei "bonus" sono stati: un weekend a Londra, un iPod nano, una fotocamera digitale compatta, un'altro fine settimana a Londra poi monetizzato in busta paga.

Alla fine, non è nemmeno tanto una questione di soldi. Per carità, fanno piacere e soprattutto fanno comodo e danno tranquillità. Ma quando mi ritrovo a confrontare il mio lavoro attuale con quello che ho lasciato per trasferirmi qui, la mia testa si sofferma inesorabilmente su altro. Per esempio sul fatto che il mio manager mi ringrazi sempre per il lavoro svolto o che quando mi affida nuove mansioni, magari urgenti, mi chieda sempre per favore. Che mi chieda se va tutto bene, che sia sempre a disposizione se ho difficoltà, che se sbaglio qualcosa non inizi a urlare come se gli avessi tirato un pestone sui calli, ma mi aiuti a rimediare all'errore, magari confessando che è capitato anche a lui. Mi piace che, nonostante le decisioni finali e importanti siano sue, spesso chieda la mia opinione. Per prenderla in considerazione davvero. Mi piace soprattutto che la qualità del mio lavoro venga riconosciuta praticamente ogni giorno.

Non voglio essere ingiusta. So che dove lavoravo prima venivo comunque apprezzata. Ma lo so perché ho imparato a leggere tra le righe, perché ho faticosamente imparato ad avere fiducia in me stessa e in quello che facevo, perché grandi cazziatoni e urlatacce e richiami nell'ufficio presidenziale, in sette anni, non ne ho praticamente mai ricevuti, perché durante i vari tsunami sono sempre stata risparmiata. Ma non ho mai neanche ricevuto questo costante riconoscimento che fa capire che il mio lavoro è importante e non un regalo che l'azienda graziosamente mi fa, ma che al contrario sono io a darle valore, a essere una risorsa.

E alla fine non c'è migliore gratifica. Anche se aggiungere un bonus è sempre meglio :-) 

2 commenti:

  1. Sono d'accordo. Fino a qualche mese fa avrei pure detto "sì sì, anche qui - no no, non è colpa dell'Italia - non sono tutti gli italiani così - eppure qui..."
    Ora invece ti dico che il mio capo è stato rapito dall'alieno dell'italianità peggiore, che quindi non chiamerò mai più "italianità", non penserò mai più che gli italiani tendono più a farti il regalino una volta all'anno, che a apprezzare il tuo lavoro che tu fai (bene) per loro ecc.. mentre in Germania ogni giorno "per favore e grazie". Insomma invidio la tua situazione come se lavorassi in Italia, perché il mio capo tedesco ha perso il senno e affronta la sua crisi (personale e lavorativa) pulendosi le scarpe su noi dipendenti che non c'entriamo nulla e non meritiamo le sue sfuriate e le sue accuse.
    Però a natale, il discorso ufficiale su quant'è affiatato il nostro team ce lo siamo dovuto sorbire anche se ci suonava falsissimo.
    Ok, scusa, mi sono un po' sfogata :P

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  2. Guarda, da un lato credo che sia un po' una questione di mentalità inglese, con tutti i suoi pro e i suoi contro. Estrema cortesia, "please disease" e tendenza a evitare scontri e urlatacc, con il contraltare dell'affettazione e di un atteggiamento passivo/aggressivo in cui ti tocca decifrare se ce l'hanno con te ma vogliono evitare lo scontro, oppure hanno semplicemente i cazzi loro.
    Detto questo, so di realtà "all'italiana" anche qui, con atteggiamenti manageriali estremamente stupidi. Diciamo che mi ritengo molto fortunata, per il momento :-)

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